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La Tassazione delle Transazioni Internazionali

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L’osservazione che il diritto vada verso la globalizzazione  sta diventando un cliché. E, come la maggior parte dei cliché, l’osservazione è, dal mio punto di vista, corretta: vox populi, vox dei. Sempre più giuristi infatti, negli Stati Uniti d’America così come nel resto del mondo, si trovano ad affrontare problemi di dimensione transnazionale. Gli effetti di un mercato globale in continuo aumento e sviluppo, all’unisono con la mobilità delle persone e delle idee,  stanno interessando anche i tributaristi, generalmente “miopi” ed interessati quindi al solo diritto interno. Negli Stati Uniti, per esempio, la tassazione delle transazioni internazionali veniva un tempo studiata da un numero molto limitato di esperti. La rapida crescita del commercio e degli investimenti, gli sviluppi della tecnica nelle comunicazioni e nei trasporti, hanno, negli ultimi anni, fatto aumentare notevolmente il numero dei fiscalisti che si occupano di diritto tributario comparato per soddisfare le esigenze di una clientela sempre più “esigente” ed “esterofila”.

Un dato del Dipartimento del Commercio Statunitense è sicuramente significativo: nel 1960 gli Stati Uniti esportavano merci per 26 miliardi di dollari (l’importazione era invece pari a 22 miliardi di dollari); nei soli primi quattro mesi del 2000 le esportazioni sono invece state pari a 256.4 miliardi di dollari (e le importazioni a 342.9 miliardi di dollari).

Il commercio internazionale del resto non differisce poi così tanto dal commercio interno. Una nota storiella, citata in gran parte dei libri di testo americani sull’argomento, può spiegare questa affermazione: il Sig. X aveva un cavallo che usava per andare al lavoro; un giorno disse: “voglio un’automobile per andare al lavoro” e così si recò dal Sig. Y che vendeva autovetture e gli disse: “ mi può dare un’ automobile se le do il mio cavallo?”. Il Sig. Y, che vendeva auto ma che in quel periodo cercava una cavallo, prese l’animale e diede al Sig. X una autovettura. Entrambi erano così felici. Il commercio quindi, sotto qualunque forma, “migliora” le parti contraenti.

Ovviamente non esiste commercio senza che i governi interessati non vogliano “collect” imposte o tasse dagli introiti derivanti dal commercio stesso. Ritornando ai nostri giorni e “modernizzando” la storiella sopraccitata, immaginiamo che il Sig. X “scambiò” contanti, invece del cavallo, per la tanto desiderata autovettura. Supponiamo inoltre che il venditore dell’auto sia un cittadino americano residente negli Stati Uniti, che l’automobile sia fabbricata in Canada e che il Sig. X viva in Canada. Gli Stati Uniti possono far valere il diritto di tassare ogni profitto derivante dalla vendita dell’auto a causa della residenza o cittadinanza del venditore, ed il Canada altresì potrebbe rivendicare il proprio diritto a riscuotere imposte in quanto l’autovettura era stata fabbricata in Canada e venduta ad un residente canadese. Problemi su quale Paese, se gli Stati Uniti od il Canada, debba tassare potrebbero quindi insorgere. La necessità di un coordinamento diventa così ineluttabile. Andando avanti nell’esempio, supponiamo che il Canada imponga una tassazione del 50% su ogni profitto realizzato in Canada e che gli Stati Uniti prevedano una tassazione del 50%  su ogni profitto, ovunque ricavato, se realizzato da un proprio cittadino[1] o da un residente negli Stati Uniti. Alla luce di tali supposizioni, il tasso di imposta totale sarebbe del 100%, l’intero profitto derivante dalla transazione verrebbe tassato e la transazione quindi non potrebbe avvenire in quanto mancante di vantaggio economico per ambo le parti. Di conseguenza la “perdita” della transazione danneggerebbe le parti contraenti così come le “casse” del Canada e degli Stati Uniti. In tale ottica, lo studio della tassazione internazionale diventa così fondamentale per trovare un coordinamento tra i rispettivi Paesi.

Nell’esempio de quo un potenziale problema di doppia tassazione potrebbe insorgere: un Paese (gli Stati Uniti) reclamerebbero l’imposta sulla base della cittadinanza o della residenza, un altro (il Canada) sulla base del luogo dove il profitto si realizza. Problema analogo di doppia tassazione lo si avrebbe anche nel caso in cui ognuno dei due Paesi “reclamasse” il contribuente come un proprio residente o qualora entrambi i Paesi sostenessero che il profitto si sia realizzato all’interno dei propri confini nazionali.

Per sopperire a tali problematiche, sempre più frequenti in conseguenza dell’esponenziale crescita avuta dal commercio internazionale negli ultimi decenni, gli Stati generalmente ricorrono ad accordi bilaterali (“tax treaties”) per evitare la doppia imposizione fiscale, applicando alcuni (gli Stati Uniti ad esempio) il meccanismo del credito di imposta[2].

I modelli di “tax treaties” che vengono utilizzati sono generalmente tre: il modello statunitense del 1996 (“U.S. Model”), il modello sviluppato dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (“OECD Model”), applicato principalmente dagli Stati Europei, ed infine il modello delle Nazioni Unite (“UN Model”), quest’ultimo generalmente inteso come una “guide” per trattati tra nazioni sviluppate ed in fase di sviluppo.

I primi due modelli analizzati sono alquanto simili e prevedono solo alcune differenze: il “U.S. Model” si preserva il diritto di tassare i propri cittadini anche se residenti nell’altro stato contraente, mentre secondo il “OECD Model”  la residenza, e quindi il “dove” l’imposta debba essere realmente riscossa, si basa sul luogo effettivo del “management” della società; in caso, inoltre, di potenziale doppia tassazione, e quindi di conflitto sullo stato che debba riscuotere effettivamente l’imposta, il “U.S. Model” ricorre al credito di imposta, il “OECD Model” al credito di imposta così come all’esenzione. Altra differenza tra i due modelli in questione, oltre le due appena menzionate, riguarda l’estensione del principio sopraccitato alle tasse locali, non previste nel primo modello di trattato, il “U.S. Model”, e quindi rientranti nella sfera di competenza della sola legislazione fiscale interna, ed invece riconosciute nel “OECD Model”. Principio analogo lo si riscontra anche nel trattamento del reddito derivante da interessi: il “U.S. Model” assegna giurisdizione esclusiva allo stato dove il beneficiario sia residente, il “OECD Model” permette invece, allo stato dove gli interessi sono stati prodotti, un limitato diritto di tassare gli interessi medesimi pagati ad un residente dell’altro stato.

Infine il “U.S. Model” pone più attenzione al fenomeno del “treaty shopping” rispetto al corrispondente “OECD Model”, limitando di fatto la validità dei benefici del trattato quando il contribuente “utilizza” il trattato per evitare il pagamento delle imposte[3] in ambo gli stati contraenti.

- Avv. Alex Gilardini, Studio Legale Gilardini, Torino-Varsavia
- Dottore di ricerca in Diritto Comparato, Università degli Studi di Torino;
- LL.M. Degree in American Law, Boston University School of Law.
  e-mail: alex.gilardini.2001@alum.bu.edu

[1] Il principio in questione è quello della worldwide taxation, secondo il quale si viene tassati sulla base della sola cittadinanza ed indipendentemente da dove si sia residenti o domiciliati: gli Stati Uniti sono uno dei pochi Paesi al mondo ad applicare tale regola. In Cook v. Tait, S.Ct. 1924, la Corte giustificò tale principio sul presupposto che i benefici della cittadinanza si estendono al di là dei confini territoriali in quanto gli Stati Uniti proteggono i propri cittadini “anywhere in the world”.

[2] Lo scopo di tali trattati è duplice: armonizzare le regole del sistema fiscale interno con quelle degli altri stati ed, allo stesso tempo, preservare la competenza giurisdizionale della legislazione interna sui propri cittadini e residenti.

[3] Cfr. “U.S. Model”, 1996, Art. 22

 

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